La crisi climatica può manifestarsi ovunque, anche in un ambito apparentemente lontano come la nostra salute mentale. Il consiglio degli esperti è di prendere coscienza della propria ansia climatica, o ecoansia: si tratta del primo passo per modificare il proprio modo di vivere e gestire le conseguenze psicologiche dei cambiamenti climatici.


L’ansia climatica è un argomento sempre più presente nel discorso pubblico, tanto che nel 2022 è entrato come neologismo nel vocabolario Treccani che definisce così l’ecoansia: “una profonda sensazione di disagio e di paura che si prova al pensiero ricorrente di possibili disastri legati al riscaldamento globale e ai suoi effetti ambientali”. Per capire meglio di cosa si tratta abbiamo sentito lo psichiatra e psicoterapeuta Matteo Innocenti, tra i fondatori di Italian Climate Change Anxiety Association (AIACC) e autore del libro Ecoansia – I cambiamenti climatici tra attivismo e paura (Erickson, 2022).

A Innocenti abbiamo chiesto innanzitutto come è nata AIACC e quali scopi si prefigge? «L’associazione è nata quasi contestualmente alla scrittura del libro, infatti la nostra missione principale era creare un gruppo di appassionati che lavorasse su versanti diversi del tema ecoansia. In primo luogo, la sensibilizzazione e l’attività divulgativa in vari ambiti, e quando si fa campagna di raising awareness si fa contemporaneamente sia attivismo che politica. Poi abbiamo creato un gruppo per fare ricerca scientifica indipendente, ma collaborando con tanti atenei (per esempio, io sto facendo un dottorato sul tema all’Università Cattolica del Sacro Cuore). Cerchiamo di creare una struttura che unisca non solo atenei diversi ma anche specializzazioni differenti per affrontare la ricerca con esperti in vari settori, non solo in psicologia. Infine, abbiamo iniziato a offrire sostegno psicologico gratuito a chi soffre di ecoansia, perché volevamo arrivare alle persone. Il libro soprattutto era un modo per capire e dare un nome alla propria emozione, offrire piccoli spunti per gestire l’ansia in autonomia o in gruppo, visto che ci sono anche gruppi di ragazzi che la vivono insieme, e anche per dare ai terapeuti dei minimi rudimenti su questo tema.»

 

L’ansia climatica colpisce soprattutto giovani e donne

L’attenzione di Matteo Innocenti verso ragazzi e ragazze è giustificata dal fatto che sembra esserci un gradiente anagrafico fra chi soffre di ecoansia, infatti è molto più frequente tra le fasce di popolazione più giovani, che corrono un rischio maggiore di sviluppare i sintomi di questo particolare disagio psicologico. Forse perché le nuove generazioni hanno una maggiore sensibilità rispetto ai temi ambientali, e questo è testimoniato anche dalla loro massiccia presenza tra le fila di molti movimenti come Fridays for future, Extintion rebellion e Ultima generazione.

Si tratta di un fenomeno globale, infatti secondo la BBC, le ricerche online legate all’ecoansia sono cresciute in modo impressionante: in lingua inglese sono aumentate di 27 volte durante i primi dieci mesi del 2023 rispetto al 2017. E questa crescita dell’ansia climatica non è limitata solo ai paesi anglofoni, ma Google Trends rivela un aumento di ricerche simili in varie lingue. Per esempio, le query in portoghese sono cresciute di 73 volte, in cinese di 8 volte e i paesi scandinavi (Finlandia, Svezia, Danimarca e Norvegia) sono capofila nelle ricerche sull’ecoansia, rappresentando oltre il 40% delle query mondiali.

In questi report si nota anche una estrema disparità di genere, dato che molto più spesso sono le donne a cercare notizie su questi temi rispetto agli uomini, un aspetto confermato anche da Innocenti. «Sì, la disparità di genere c’è e questo può essere interpretato in vari modi, facendo attenzione a valutare i dati senza fare discorsi sessisti. Per esempio, sappiamo che il cambiamento climatico è indotto dall’uomo nel senso che ha una causa antropica, ma “uomo” va inteso in particolare come genere maschile… si calcola che la stragrande maggioranza del capitale mondiale appartenga agli uomini e 2/3 del lavoro sono fatti dalle donne. Non a caso, esiste anche la corrente dell’eco-femminismo che collega le idee del femminismo all’ecologia, all’ambientalismo e all’antispecismo: proprio la sublimazione che dovrebbe essere fatta per uscire dalla crisi climatica.»


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Eppure, in questo scenario piuttosto cupo qualcosa sembra muoversi, soprattutto a livello di sensibilizzazione, dato che tante istituzioni – in primis, le scuole – organizzano attività e incontri sul tema dell’ansia climatica. E anche nella comunità scientifica si parla molto di questo argomento, anche se la comunicazione rimane spesso legata solo al termine “ansia” che a volte viene inteso in senso patologico e quindi si corre il rischio di renderlo oggetto di stigma.

Innocenti nota che «sicuramente sono stati fatti dei passi avanti: la consapevolezza sul tema sta aumentando in maniera esponenziale, ed è una fortuna per tutti. Anche se bisogna smettere di dire sempre “troppo poco, troppo tardi” come si è fatto, per esempio, parlando della COP28. Questo può avere delle ripercussioni anche sulle reazioni delle persone perché ovviamente c’è chi spera, chi è già un po’ rassegnato… Bene se aumenta la consapevolezza, ma è importante capire che l’ecoansia è un’espressione normale perché è una giusta preoccupazione, che in futuro probabilmente aumenterà e potrà essere risolta solamente tramite azioni concrete. Se l’attenzione e i progetti di ricerca sul tema aumentano è certo positivo, però è anche indicativo del fatto che sta crescendo l’ecoansia. Dunque parliamone pure di più, ma vorrei se ne parlasse di meno perché vorrebbe dire che ce n’è meno; oltre alla consapevolezza bisogna agire, altrimenti il problema non si risolve. Quindi io spero tanto che nei prossimi 15 anni il termine ecoansia scompaia e non se ne parli più, perché questo vorrebbe dire che non c’è più da preoccuparsi.»

 

Il climattivismo ci salverà?

Le azioni concrete di cui parla Innocenti sono ovviamente decisioni che vanno prese a livello globale, per esempio nelle già citate Conferenze delle parti o in altri consessi internazionali, ma anche sul piano dell’impegno personale si può fare qualcosa. Non è un caso che tante persone, più o meno giovani, in questi ultimi anni si stiano avvicinando all’attivismo climatico per poter dare il proprio contributo a una causa che ci riguarda tutte e tutti. Infatti. l’angoscia dovuta alle conseguenze presenti e future dei cambiamenti climatici potrebbe essere in una certa misura funzionale, e richiedere soluzioni sia collettive che individuali. E forse l’attivismo serve anche ad affrontare in modo costruttivo l’ansia climatica, tanto che potrebbe avere un valore terapeutico mettersi insieme con altre persone che condividono la stessa preoccupazione e il desiderio di fare qualcosa?

L’abbiamo chiesto ancora a Matteo Innocenti, che chiosa così: «nelle nostre ricerche dimostriamo come proprio l’attuazione di comportamenti tra cui l’attivismo riduce i livelli di ecoansia. Questo effetto però viene bloccato da stigma o denunce, oppure se le persone non vengono ascoltate o pensano che questo non serva a niente. A quel punto l’ecoansia può sfociare in “ecoparalisi”, una condizione estrema in cui la persona è paralizzata e non fa più nulla perché disillusa, oppure nella “terrafurie”, una rabbia che può portare a compiere gesti più estremi. Alcuni gesti, che a volte sembrano insensati, sono dei tentativi per incanalare una voglia non solo di far qualcosa di utile ma anche di far sentire in maniera disperata la propria voce. Per questo i ragazzi che hanno questa grande energia devono essere ascoltati: ascoltiamoli a livello decisionale e mettiamo insieme le loro proposte, non è facile ma si può fare e sarebbe questa la soluzione.»

 

Sara Urbani – formicablu

Immagine in apertura: La climattivista di Toronto Alienor Rougeot in uno dei primi scioperi sul clima di Fridays for Future (Dina Dong/wikipedia, 2019).

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